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L’ANTEFATTO
23 gen 2017 lun
Guido, che due o tre giorni fa è stato con Silvia dai Mazzoli, riferisce che Genè gli ha parlato del nonno Natale, di quando correggeva di notte le lastre in Lamarmora, di Giacomo, Raffaella e Laura, della quale probabilmente si ricorda, anche se immagina di averla vista a Forlì, così come ricorda la zia Maria e Attilio…
26 gen 2017 gio
Vado a trovare i Mazzoli, mi fermo a cena poi chiedo a Genè di raccontarmi del pa’. Prendo appunti.


GENE’ RACCONTA

Natale

[NATALE Giovanni Stefano MURATORI – Piavola (Cesena), 25 dicembre 1905 – Milano, 3 gennaio 1968]
[Ricordo una sua carta d’identità con scritto nato a Casalbuono (Teodorano). Teodorano è stato Comune fino al 1925]

arrivò a Milano verso il 1925

[Aveva perciò circa 20 anni – Al Comune di Milano risulta notificato fra la popolazione avventizia il 12-10-1925]

con lo zio Giacomo.

[GIACOMO MURATORI – Teodorano, 14 marzo 1892 – Milano, 26 settembre 1948, fratello di 14 anni più giovane del padre di Natale, Andrea.]
[ANDREA Giuseppe MURATORI detto “Fafin” – Teodorano, 24 gennaio 1878 – Mercato Saraceno, 31 marzo 1947]

Giacomo, privo di un braccio, aveva una figlia, Laura (1), avuta dalla moglie Ines Arlenti, vedova e già madre di Raffella.
Giacomo aprì lo studio fotografico a Dergano dove all'inizio lavorò anche Natale.

[Giacomo, che fece da padre a Natale da quando lo chiamò ad abitare con lui a Meldola e che nelle fotografie appare un omone sorridente, aveva solo 13 anni più di mio babbo]

Natale frequentò la Scuola di Fotografia al Castello Sforzesco. Aveva come compagni di scuola Carlo Artico, il cui negozio di fotografia è ancora in viale Premuda 1 (a cento metri dalla casa di Genè) e Elio Luxardo.

[Elio Luxardo (Sorocaba, 1º agosto 1908 – Milano, 27 novembre 1969) è stato un fotografo italiano. Dopo la guerra aprì il suo nuovo studio fotografico in Corso Vittorio Emanuele (Wikipedia). Il padre di Luxardo nel 1900 emigrò in Brasile nello Stato di San Paolo, come il padre di Natale]

Intorno agli anni che vanno dal ‘29 al ’33 Natale frequentò, sempre al Castello Sforzesco, la Scuola di Pittura poi per tutti gli anni ’30 lavorò come ritoccatore alla Bertarelli, di fronte ai giardini Guastalla in via San Barnaba. La Bertarelli stampava cataloghi per le industrie. Venne distrutta da una bomba durante la guerra. Al suo posto oggi c’è il parcheggio del Policlinico.

[Da bambino in quell'area ricordo una stecca di case grigie di legno per gli sfollati dai bombardamenti]

Come secondo lavoro, oltre alla Bertarelli, realizzava fotografie per i cataloghi della Galleria d’Arte e Antiquariato Geri di c.so Venezia 10. Fotografava oggetti e quadri e di notte ritoccava le lastre in via Lamarmora. Genè ricorda lo stridio del raschietto sulle lastre di vetro. Scontornava i soggetti quando in stampa voleva isolarli su un fondo bianco o nero. A volte la Geri, anziché andare lui là, gli mandava a casa quadri di valore da fotografare. Genè tra gli altri autori ricorda Sironi, De Chirico, Morandi, Caravaggio (!), Fattori e Segantini.
Durante la guerra tornò a lavorare con Giacomo.
Da prima della guerra abitava nello stesso appartamento in cui siamo cresciuti io, Aida e Andrea, Giacomo invece con Laura, Raffaella e la moglie abitava l’appartamento accanto, dove poi arriverà Genè col fratello Oscar e i genitori Vittorio Mazzoli e Iolanda Collinelli. (2)

[Iolanda e Natale erano cugini perché figli di sorelle, Iolanda figlia di Elvira Severi e Natale di Argia.]
[ARGIA Eugenia SEVERI – Sogliano, 21 febbraio 1880 – Imola, 30 agosto 1914] [nello Stato di Famiglia di Meldola, nata il 4 luglio 1880]

Giacomo si era spostato con la famiglia al piano di sotto nell'alloggio a destra salendo le scale.

(1)
Genè racconta che Laura, nata forse nel 1922 o ‘23 cominciò a fare cravatte perché aveva frequentato la Scuola di Avviamento al lavoro all'Umanitaria (triennio professionale sostituito dal 1962 dalla Scuola Media unica) ed era diventata disegnatrice di tessuti. Aveva lavorato “era brava” con un’azienda di Milano che aveva più negozi di cravatte e conosciuto vari personaggi che gravitavano attorno all'industria della seta, dalla produzione e confezione alla distribuzione. Poi si era messa in proprio e nel ’53 portava in treno il suo campionario a Roma. Si era sposata dopo la guerra. Marisa ricorda che si era fatta fare i mobili bianchi a Cantù, senza immaginare che lei stessa alcuni decenni dopo avrebbe avuto in casa tutti i mobili bianchi. Raffaella si era sposata in tempo di guerra con un meridionale, prefetto (tutore) nel Collegio Longoni, dove oggi c’è la Prefettura.

(2)
I Mazzoli si trasferirono a Milano perché un giovane notaio di San Piero in Bagno, zio acquisito del padre di Genè (avendo sposato una Mazzoli) aveva vinto un concorso a Milano. San Piero era allora in Toscana, passò in Romagna quando Mussolini inglobò la sorgente del Tevere nella provincia di Forlì, sua provincia natale.
Il notaio verso la fine degli anni ’20, primi anni ’30 si fece raggiungere dalla nipote Fede, sorella di Vittorio, quasi certamente dopo il 1926 anno di nascita a San Piero di Giannina figlia di Fede.
Fede a sua volta, sempre tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30, chiamò a Milano il fratello Vittorio.

[Fede si chiamava Fede, non Federica come oggi si potrebbe immaginare, vista la generale abitudine a contrarre i nomi. Aveva una sorella di nome Speranza e una seconda che il padre avrebbe voluto chiamare Carità, ma a questo punto, secondo Marisa, la moglie si oppose.]







Natale MURATORI
I RICORDI

Tento una biografia di mio padre a cinquant'anni dalla morte.
Quando morì era più giovane di me oggi, di sette anni. Nessun problema, lo vedo ancora come persona anziana, molto più grande di me, alto, elegante, i capelli ondulati, prima castani poi grigi, il viso sottile, lo sguardo gentile, sorridente, raramente severo, gli occhi azzurri, il tono pacato.
Credo di averlo visto sempre con la cravatta.
D’inverno un lungo cappotto scuro accentuava la solennità della sua figura magra. Completava l’eleganza a volte un Borsalino nero.

A Dergano quando doveva andare da un cliente in via Imbonati o Pellegrino Rossi o Conte Verde usava una pesante bicicletta nera. Metteva due mollette da bucato in fondo ai pantaloni per non ungersi di nero l’orlo con la catena.
Aveva le unghie che scurivano color caffè in punta. Era l’uso continuo degli acidi per sviluppare e stampare foto.
La sera a casa ricordo me seduto su di lui seduto che disegnava per me immagini che nascevano sotto i miei occhi, con la penna stilografica.
Ricordo di avere fatto lo stesso coi miei figli, senza però penna stilografica.

Ad ogni modo ne ho avute anch'io. Se ricordo bene una Pelikan verde e nera mi fu regalata quando feci la prima comunione. Sì, perché mio babbo, ma forse lo chiamavo papà e coi miei fratelli è ancora il pa’, era credente e praticante. Anche mia mamma, che tuttavia aveva avuto genitori socialisti e antifascisti, fatto che in Romagna specie per gli uomini equivaleva a essere anticlericale e che quando Sandro Pertini divenne Presidente della Repubblica si comprò un suo libro e in quel periodo comprò anche libri della Rai, un corso di lingua straniera… e da ragazza aveva studiato dalle suore.

A messa però ricordo mio padre una domenica nella chiesa di Santo Stefano, io accanto a lui in piedi, i calzoni corti, le gambe che toccavano la sedia impagliata dietro di me sulla quale avrei voluto sedermi. I polpacci mi formicolavano sempre più. Un incubo. E tutti stavano in piedi in attesa che la liturgia li facesse sedere e finalmente concedesse sollievo ai miei polpacci.
Probabilmente più di una volta visitammo lì accanto la chiesa di San Bernardino alle Ossa, tappezzata di teschi e tibie.

La prima volta che ho visto l’Ambrosiana e la cesta di Caravaggio è stato con lui.
Sono certo di aver fatto la stessa cosa coi miei figli.

Aveva sue teorie sul cibo. Lo ricordo annusare il piatto prima di mangiare.
Le cipolle facevano bene, rinfrescavano. Il formaggio invece, ma potrei sbagliarmi, indeboliva la vista. Almeno una volta lo vidi scurire il brodo con un sorso di vino rosso, doveva essere un ricordo della Romagna sua terra d’origine.
Quando andavo da lui a Dergano mangiavamo su un tavolo tondo, coperto da un pesante tappeto, posto in un angolo dello studio fotografico. Ora che ci penso dev’essere il tavolo portato a Sant'Agata a piano terra.
Aveva un fornello e una padella su cui cuoceva tenere bistecche al burro, forse vitello. Se voglio tornare bambino una via è il sapore della carne al burro. Poi c’era il merluzzo fritto, altro piatto a cui sono affezionato benché ne mangi raramente. Ultimo un classico assoluto, il vitello tonnato, uno dei tanti cibi di cui sono goloso e che spesso collego a lui.

Mio fratello, che ha frequentato Dergano quanto me, ricorda che la bistecca veniva cotta su una piccola stufa nel locale d’ingresso e che nostro babbo dopo pranzo si concedeva il rito della lettura del Corriere. Sempre all'ingresso conservava alcuni ritagli del giornale appesi nell'anta dell’armadio.

La mattina per andare al lavoro usciva di casa per primo, la sera tornava tardi, dopo le 22,00 o 23,00 e mia mamma gli serviva la cena.
Però ricordo che quando ero piccolo era lui ad accompagnarmi a scuola.
Ho frequentato la materna e le elementari in via Corridoni, che poi era via Dandolo e per arrivarci, specie d’inverno, attraversavamo il palazzo di giustizia.
L’ingresso di via san Barnaba era aperto, i controlli col metal detector arriveranno decenni dopo. L’attraversamento era strategico perché tagliava in diagonale verso via Luciano Manara, ma ancor più perché concedeva una pausa al freddo tagliente della mattina. Percorrevamo lunghi e ampi corridoi altissimi mentre c’era chi puliva il pavimento con larghe scope e segatura.
In via Manara facevamo tappa da un panettiere che aveva in vetrina cremonesi e veneziane. A me piacevano le veneziane, più dolci e soffici e con la granella di zucchero. Mio padre ne prendeva una per la mia merenda del mattino.
A volte in via san Barnaba incontravamo un peracottaio che offriva piccole pere cotte color ruggine, tenute in caldo dentro un contenitore di rame che portava a tracolla.

Mi rendo conto di aver descritto tutto in prima persona, anche se, com'è naturale, quando andavamo a scuola c’era anche mio fratello Andrea. A lui il palazzo di giustizia e via Luciano Manara hanno fatto venire in mente che il pa’ forse durante l’estate di san Martino, “… in autunno, quando il tempo era ancora tiepido”, gli (ci) raccontava la storia del buon samaritano che dona il mantello a un viandante. Andrea ricorda che ci accompagnava in via Corridoni, verso le 8, poi ci salutava e quando siamo stati più grandi ci lasciava all’angolo di via Dandolo “… gli piaceva salire al volo sul tram che lo portava a prendere l’82 per Dergano. A quel tempo in fondo al tram salivi senza porte”.
Che mancassero le porte a me non sembra, ricordo però il bigliettaio in fondo alla vettura, seduto dietro una mensola su cui erano appoggiati blocchetti di biglietti, lilla o grigio azzurri.

Nostro padre era affettuoso, serio e di cuore e, per quanto ricordo non ci ha mai sfiorato neppure con un dito, nessuno di noi tre fratelli. Al massimo gli sarà capitato di minacciare col braccio alzato, lo sguardo severo e basta. Per la verità anche mia madre.
Sembra che una volta da bambino mio fratello abbia detto “Mio papà le botte le manda in alto”.
Dimostrava di volerci bene senza chiasso, l’esuberanza non faceva parte del suo carattere.
La mattina prima di uscire lasciava mille lire sul tavolo in cucina, mia mamma aveva il compito di decidere come spenderle. Negli anni le mille lire erano aumentate, mio fratello ricorda tre banconote sul tavolo.

La sera, dopo il lavoro nello studio fotografico, andava alla Scuola Superiore d’Arte Applicata del Castello Sforzesco di cui era il fotografo. Ricordo che la scuola occupava, come credo oggi, i sotterranei e nel corso di scultura c’erano tavoli e supporti di legno su cui gli studenti modellavano bassorilievi e statue di creta che coprivano con strofinacci bagnati alla fine della lezione.
Immagino che il suo compito fosse fotografare i lavori per documentare a fine anno i progressi di ogni allievo. Uno degli insegnanti era lo scultore Pellini, ma quasi certamente c’erano anche corsi di pittura e cartellonistica. Il direttore era un ex bersagliere.
Quando fu papa Giovanni XXIII la Scuola del Castello organizzò una visita alla casa natale del papa a Sotto il Monte. Mio babbo partecipò e io andai con lui.

Oltre alle lastre di vetro c’erano le pellicole Ferrania, Agfa e Kodak che si arrotolavano abbinate a un nastro di carta, nero verso la pellicola, rosa verso l’esterno. Gli succedeva che un lavoro dovesse essere stampato con urgenza, ma che non avesse terminato la pellicola, così la sera a casa restavano alcuni scatti dedicati a noi. Sono le foto in bianco e nero, più piccole delle carte da gioco, che narrano visivamente la nostra infanzia e tutte sono rigorosamente datate, a volte col timbro, più frequentemente a mano e quelle col timbro spesso sono completate a penna con l’indicazione del giorno della settimana o di chi ha scattato la foto, se fotografato era lui.

Lo immagino prudente e so che per quanto ricordo non voleva fare debiti. Dico questo perché mia mamma rivendicava affettuosamente d’essere stata lei e non “il suo Natale” a decidere l’acquisto a rate della lavatrice. Una Hoover con carica dall'alto, non ancora col cestello rotante, ma corredata di rulli in gomma motorizzati per strizzare i panni dopo il lavaggio.
Ho trovato in casa molti dei miei disegni conservati, perfino una carta geografica in plastilina colorata fissata con puntine dietro un’anta d’armadio in cui custodiva lastre e foto. Lo considero un segnale di orgoglioso compiacimento paterno, ma anche di apprezzamento nei miei confronti.

A proposito di orgoglioso compiacimento la scorsa estate Carlo, un compaesano di mia madre, oggi novantenne perché nato nel ‘24, mi ha raccontato di avere conosciuto mio padre e di serbarne ancora un caro ricordo “al bar offriva sempre lui”, ma non è solo per questo. Carlo è stato il barbiere del paese e anche il sassofonista di una piccola orchestra che da ragazzo d’estate ascoltai suonare al CRAL (Centro Ricreativo Aziendale dei Lavoratori).
Si era recato a Milano nei primi anni del dopoguerra per comprare il sassofono e fu ospitato dai miei in casa. Mio padre aveva insistito “Un compaesano di mia moglie non può andare in albergo”. Carlo ricorda di avermi visto bambino, ma dato che ricorda un bambino soltanto probabilmente non ero io, ma mio fratello. Io dovevo ancora nascere.
Mi sono immaginato mio babbo sposato da poco più di un anno con mia mamma trentenne, lui quarantenne fresco padre di mio fratello Andrea, che si rivolgeva con entusiasmo a un ventenne probabilmente mai visto prima eppure con tono così deciso e ospitale. Doveva sentirsi quasi certamente orgoglioso e felice.

Un altro episodio conferma questo aspetto per me abbastanza inedito del suo carattere. Mia zia Maria, moglie di mio zio Romolo fratello di mia mamma, mi raccontò che una volta in cui erano riuniti mia madre con le sorelle e i fratelli, in tutto erano sei, più i relativi cognati e cognate, si vide avvicinare da mio babbo che le disse compiaciuto “I migliori li abbiamo presi noi!”

Quanto al bar lo rivedo ancora chiedere un frizzantino bianco al bancone di Bruno, il tabaccaio di via Lamarmora.
Sotto casa c’era un altro bar ed era lì che mio babbo ogni settimana scendeva a vedere Lascia o Raddoppia con me e mio fratello. La tv era posta in alto e il locale trasformato in platea con tante sedie schierate.

D’estate mio padre lavorava, noi invece passavamo mesi di vacanza in Romagna con mia madre. Ci raggiungeva ogni tanto.

Mia cugina Clara, che vive a Cesena ed è figlia di mia zia Barbarina sorella di mio padre

[EMMA “Barbarina” MURATORI – Teodorano/Piavola (Cesena), 4 aprile 1904 – Cesena, 27 maggio 1982]

un paio d’anni fa mi confidò di avere ancora un debito di riconoscenza verso di lui e disse che sua mamma “senza di lui non si sarebbe salvata”. Non chiesi in che circostanza.
Sulla generosità di mio padre e mia madre non ci sono dubbi e ne sono fiero. Avrei voluto essere così anch’io.

Dei suoi primi anni si sa molto poco, era cresciuto a Piavola coi fratelli.
Oltre a Barbarina maggiore di lui di un anno, aveva avuto una sorella più grande di cinque, Aida, ma forse meglio “la Ida” visto lo Stato di Famiglia che mia sorella Aida si è procurata dal Comune di Meldola,

[IDA MURATORI – Ribeirao Preto (Brasile), 9 febbraio 1900 – Teodorano, 8 febbraio 1920]

un fratello più grande di tre anni, Tonino anch’egli nato in Brasile

[ANTONIO “Tonino” MURATORI – Ribeirao Preto (Brasile), 22 agosto 1902 – Mercato Saraceno, 10 gennaio 1972]

e una terza sorella minore di due anni, Maria che gli somigliava molto.

[MARIA MURATORI – Teodorano/Piavola (Cesena), 18 dicembre 1907 – Forlì, 27 maggio 1982]

Secondo Iolanda, mamma di Genè, Ida era diventata cieca in Brasile a causa di un collirio. Tornata in Italia pascolava le bestie, ma a vent’anni morì di tifo.
In Brasile successe anche che sua mamma Argia, che nemmeno ventenne era già emigrata nello Stato di San Paolo e l’aveva data alla luce, fu testimone in strada di un fatto di sangue nel quale qualcuno sparò e fece imbizzarrire un cavallo proprio davanti a lei. Il trauma la scosse profondamente e forse fu all’origine dei suoi successivi problemi psichici.
Non è chiaro di cosa soffrì, ma a un certo punto fu ricoverata a Imola nella struttura manicomiale di Villa dei Fiori riservata ai pazienti curabili, dove però rimase fino alla morte, avvenuta secondo Luigi di Piavola, cugino di mio babbo, nel 1918.

[LUIGI MURATORI – Teodorano, ….. 1920 – Cesena, …. 201…]

Secondo mia sorella, che ha svolto ricerche, Argia morì invece nel 1914 in ospedale a Imola, in via degli Orti 34. Dice che fu ricoverata una prima volta nel 1908, dunque a 28 anni. Mio padre non ne aveva ancora 3. L’ultima figlia Maria era nata da poco per cui aggiunge, potrebbe aver sofferto di depressione post parto tanto da minacciare, sembra, di volersi buttare nel fiume.
Andrea, marito di Argia si trovò così a 30 anni con cinque figli da 0 a 8 anni e Ida la maggiore, cieca. Furono cresciuti tutti dalla nonna Rosa, sua madre.

[ROSA ZATTINI – Teodorano, 20 giugno 1851 - Teodorano (?), … 1924]

Di mio nonno Andrea so solo che aveva due anni più di sua moglie, che forse faceva il tecnico minerario e che, non so a che età, trovò una nuova compagna e si risposò.

Dopo avere scritto queste pagine e sistemato le fotografie, ho notato che Andrea nella foto scattata davanti alla casa di Piavola assieme ai figli, benché il terreno sia irregolare e in pendenza, era alto.
Magro e alto anche lui, non solo mio babbo. Lo avevo sempre collegato all’immagine del ricordino funebre, invece…

Luigi di Piavola un giorno mi indicò il profilo di una casa sul crinale opposto della vallata rispetto alla casa di Piavola e disse che Andrea aveva vissuto lì e che nella zona era sempre stato stimato.
Natale andò ad abitare a Meldola presso lo zio Giacomo che aveva perso un braccio, non so come.

Secondo Luigi di Piavola, quando morì suo nonno Luigi,

[LUIGI MURATORI – Teodorano, 8 marzo 1850 – Teodorano (?), …. 1917]

che era marito di Rosa e padre di Andrea e Giacomo, quest’ultimo fu liquidato dell’eredità di Piavola e comprò un palazzo a Meldola, che perse a biliardo.
I miei bisnonni Luigi e Rosa ebbero anche Maria a cui fu saldata l’eredità in denaro,

[MARIA MURATORI – Teodorano, 1 novembre 1874 – Teodorano (?), 20 febbraio 1951] ASSENTE nello Stato di Famiglia di Meldola

Teresa, che ebbe in eredità un podere di 5 tornature (pari a un ettaro e mezzo),

[TERESA “Barbarina” MURATORI – Teodorano, 4 dicembre 1884 - Cesena, 12 giugno 1973]

infine Agostino, che ricevette in eredità il podere passato poi a Luigi di Piavola.

[AGOSTINO MURATORI – Teodorano, 23 giugno 1887 - Cesena, 23 febbraio 1943]

Tornando a Giacomo, secondo Luigi di Piavola Giacomo sposò una vedova possidente.
Secondo Verdiana di Borello, figlia di Tonino fratello di mio babbo

[ARGIA “Verdiana” MURATORI – Piavola (Cesena (?), … 1927 – Cesena (?)…. 1999]

Giacomo alla fine si giocò tutto. Verdiana mi narrò una scena nella quale Giacomo, caricati su un carro moglie, figlie e quanto gli era rimasto disse a Natale “Se ce la caviamo in quattro ce la caveremo anche in cinque” dopodiché partirono tutti per Milano, non seppe dirmi l’anno. Oggi ho scoperto che era quasi certamente il 1925, per cui Verdiana, nata nel ’27 non può che avermi riportato il racconto che qualcuno le aveva fatto.

Mio babbo e mia mamma si sposarono a Milano nella chiesa di san Calimero, sabato 18 agosto 1945. Mia madre una volta mi disse che si erano conosciuti in bicicletta al bivio di Diegaro, vicino a Cesena.
Non ricordo se mi disse quando, però dopo avere sistemato le foto ho notato che compare per la prima volta nel maggio del 1943 e sempre in quell’anno sono fotografati a Sant’Agata lei, le sue sorelle e i miei cugini Alberto e Maria, allora ancora piccoli.

Una sera la televisione trasmetteva una Tribuna Politica con Amintore Fanfani, ricordo la cucina di casa, le immagini in bianco e nero e mio padre che seguiva con evidente approvazione.

Il suo studio fotografico era in piazza Dergano.


Era una costruzione di un solo piano all’interno di un cortile verso il quale presentava una parete lunga 4 o 5 metri tutta vetrata, tranne uno zoccolo di circa mezzo metro.


Il lato destro, che forse era poco più lungo del lato vetrato, era invece un muro grigio intonacato che arrivava fino a un piccolo cancello di ferro dietro il quale si vedeva un giardino. Prima del cancello, che faceva angolo col muro, c’era la porta dello studio.
 
 
L’interno era piccolo, raccolto e ribassato, forse largo 2 metri e profondo all’incirca 3 o 4. A destra della porta entrando c’era uno stretto armadio. Nella parete destra una piccola finestra affacciata sul giardino e protetta da un’inferriata illuminava il tavolo da lavoro che era addossato alla parete proprio sotto la finestra. Prima del tavolo c’era la stufa, ricordata da mio fratello.
Il soffitto ribassato, la parete di fondo e quella di sinistra erano di legno con doghe verniciate in azzurro o verde chiaro. Nella parete di fondo si apriva una porta che dava accesso a una minuscola camera oscura, da una porta sulla parete sinistra si entrava invece nello studio fotografico vero e proprio.
Sul tavolo era appoggiato un cavalletto da ritocco in legno che era formato da tre telaietti quadrati, di circa mezzo metro, incernierati tra loro a formare una zeta aperta verso l’alto. Il primo telaio orizzontale poggiava sul tavolo, il secondo inclinato incorniciava un vetro opalino su cui mio padre appoggiava le lastre da ritoccare, il terzo sosteneva un telo nero per schermare la luce. Mio babbo stava seduto per ore a ritoccare le lastre fotografiche con una grande lente d’ingrandimento e una matita portamine dalla punta lunga e finissima. Usava anche sottili pennelli che intingeva in piccole vaschette di ceramica bianca contenenti un colore rosso.
Nella piccola camera oscura una lampadina rosso scuro faceva intravedere a fatica lui che immergeva in una bacinella la carta impressionabile su cui gradualmente apparivano le foto. Quando riteneva avessero raggiunto la nitidezza voluta le passava velocemente in una bacinella accanto con acqua corrente, perché non scurissero troppo.
Lo studio era uno spazio particolarmente suggestivo. 
Entrando si aveva di fronte la grande parete vetrata, formata da una leggera intelaiatura di ferro a riquadri con vetri retinati parzialmente schermati da tende verticali scorrevoli. Anche la copertura probabilmente era in vetro, sebbene forse solo verso il cortile e la luce che proveniva dall’alto era filtrata da un sistema di tende che scorrevano in orizzontale a circa due metri d’altezza. Si trattava di coppie di fili di ferro accostate, larghe più o meno mezzo metro che coprivano tutta la zona di posa e su cui erano sospese in fila indiana bianche tende scorrevoli, lunghe circa un metro. Le tende, panciute a gronda per la gravità, sembravano formare la grande velatura di un vascello fantastico di cui mio padre era il nocchiero, che muoveva le vele con un lungo bastone di legno per dosare la luce, in una manovra nota solo a lui.
Sulla parete di sinistra a circa due metri d’altezza un rullo srotolava una scena d’interno, dipinta su toni grigi, che fungeva da sfondo per le foto. Davanti al fondale, su una gamba tornita in legno con tre piedi, uno sgabello circolare girevole e imbottito aspettava i clienti delle foto tessere.
Nel frattempo ci sedevo io che giocavo a ruotare in su e in giù.
A destra dello sgabello c’era una colonnina portafiori di legno quadrata e a sinistra la lampada verticale. La lampada alta circa due metri e larga una trentina di centimetri era di lamiera verniciata in azzurro chiaro. Una gamba di legno ne garantiva la stabilità perché terminava con una base a T il cui braccio rivolto verso il retro della lampada era appesantito da un disco di ferro nero alto qualche centimetro. La lamiera formava una nicchia verticale semicircolare scandita da un paio di mensole interne che la dividevano in settori dentro ognuno dei quali era fissata sul fondo una lampadina. Sul retro della lampada in corrispondenza delle lampadine c’erano interruttori tondi di ceramica bianca.
Dietro alla lampada c’era una scala di legno che portava al soppalco dove mio babbo conservava le scatole delle lastre. Il soppalco formava la copertura della camera oscura e della zona d’ingresso. Quando si entrava nello studio, la scala era a sinistra, a destra addossato all’angolo c’era il tavolo tondo col tappeto. Sulla parete di destra erano appese alcune cornici ovali e rettangolari riccamente intagliate che inquadravano grandi fotografie in bianco e nero. Due fotografie ritraevano a mezzo busto i miei nonni Andrea e Argia.
Al centro dello studio troneggiava una macchina fotografica posta su un massiccio e leonardesco cavalletto di legno con tre gambe, ingranaggi di ferro e una manovella girevole. Se non ricordo male per la messa a fuoco la macchina fotografica aveva l’obiettivo a soffietto, nero. Sul retro il mirino era in realtà un telaio quadrato di legno grande una trentina di centimetri con un vetro smerigliato su cui si vedeva il soggetto da fotografare, a testa in giù. Completava il tutto un telo nero fissato alla macchina sotto il quale mio padre nascondeva la testa. Prima di scattare la foto occorreva sostituire al vetro una scatola piatta sempre di legno che conteneva la lastra fotografica e che si apriva e chiudeva verso la macchina facendo scorrere da destra a sinistra una serrandina. Lo scatto era prodotto da una peretta di gomma rossiccia collegata alla macchina con un tubo sottile. Per i tempi d’esposizione mio padre contava mentalmente.

Io e mio fratello andavamo a Dergano a turno e a turno ci toccava aggiornare il registro delle fototessere. Era un librone grande quanto e più di un atlante, alto, pesante, con la copertina rigida. Dai blocchetti a strappo delle ricevute dovevamo riportare a penna su più colonne, nome cognome del cliente e numero progressivo della ricevuta, a cui corrispondeva il numero della lastrina conservata nel soppalco. Era un lavoro noioso, di ore, ma Dergano non era solo questo, nel cortile della casa c’erano anche i bambini che abitavano lì e con loro giocavo a nascondino o a rincorrerci. E ricordo il luna park di via Conte Verde con l’autoscontro, il calcinculo e i cartoni animati che si guardavano dalla feritoia di una macchina con una manovella laterale che occorreva girare a mano perché i cartoncini illustrati, fissati a ruota dentro, creassero il movimento ruotando.
L’area del luna park era in terra battuta, oggi c’è un giardino con alberi e panchine.

Per andare a Dergano prendevo il filobus 82 di fronte ai giardini di via Guastalla, in via Laghetto angolo via Francesco Sforza di fianco alla Statale, l’Università degli Studi di Milano. Quella parte però era stata bombardata e io alla fermata del filobus, dietro alla cancellata della recinzione vedevo l’angolo di muro rimasto in piedi, in pietra grigia, alto forse due metri con davanti, sul terreno, file ordinate di lastre di pietra e cornicioni da recuperare.

Tra i lavori di mio padre c’erano le foto per i cataloghi della ditta Pizzi, che probabilmente era in zona Dergano e produceva lampadari. Ricordo grandi stampe di lampadari di cristallo su sfondo nero o bianco.

Molti decenni dopo mia sorella incontrò alla Fenice di Venezia lo scenografo e regista Pierluigi Pizzi, figlio del titolare della ditta di lampadari. Ricordava ancora i lavori di mio babbo, “un artista” e che era andato ai funerali di suo padre.

Durante un trasloco passai in rassegna il materiale che conservavo nel box proveniente dallo studio di Dergano e fra stampe e lastre trovai numerose foto di lavori di Piero Fornasetti. Le riprodussi e le portai al figlio Barnaba che casualmente avevo conosciuto a metà degli anni ’60 nelle discoteche club Tricheco. Mi ringraziò regalandomi un volume illustrato su suo padre.

Mia sorella ricorda che il pa’ la portava in duomo a vedere le grandi vetrate dell’abside. Sostavano a lungo sotto i giganteschi finestroni luminosi dai colori brillanti, mio babbo le parlava di giallo ocra, rosso carminio, blu cobalto, indaco e si faceva ripetere i nomi. Salvo la ripetizione dei nomi mi sono ricordato anch’io le volte che mi ci portava.

Un giorno mia cugina Maria per definire mio padre disse che era generoso, “la persona più buona di Milano” e un gran lavoratore.
Maria fu ospitata dai miei genitori che era ancora bambina, rientrò a Sant’Agata per terminare la quinta elementare poi tornò a Milano e ci rimase definitivamente. Era molto probabilmente il 1950. Nella casa di via Lamarmora c’erano già mia mamma, mio babbo, io, mio fratello e mio zio Dino.
Nato nel 1932 e fratello minore di mia madre, Dino abitò a Sant’Agata con sua mamma, mia nonna Filomena

[GIUDITTA “Filomena” GRIFONI – S. Agata Feltria, … 1894 – S. Agata Feltria (?)…. 1948]

fino a quando lei morì. Rimasto orfano non ancora sedicenne era venuto ad abitare a Milano in casa dei miei. Era arrivato a fine febbraio del ’48 e subito mio padre gli aveva trovato un lavoro in via Palestro dove una giuria composta dai pittori De Pisis, Sironi, forse Cantatore e altri sceglievano i quadri e le sculture da esporre in una mostra. Mio zio Dino con altri ragazzi doveva prendere i lavori dagli scatoloni, portarli uno ad uno al tavolo della giuria e rimetterli a posto. Alla mostra poi lo misero a curare gli ombrelli e ricorda che Sironi, “da gran signore”, gli diede 100 lire di mancia.

L’alloggio di via Lamarmora era composto da due stanze e per quanto mio padre dicesse che “così grandi non se ne trovavano più” erano pur sempre due. Si ingrandì gradualmente perché negli anni gli unimmo i due appartamenti vicini, ma allora era un alloggio composto da cucina, camera e gabinetto.


Devo riconoscere comunque che ci sono cresciuto senza problemi e che gli anni in cui ci ho vissuto sono stati anni sereni. Non è solo lo spazio che conta.

A volte la mattina mio padre ci svegliava con una filastrocca: - Dice il sole “Bimbi oilà! Su dal letto ch’io son qua. Son qua tiepido e giocondo a scaldare mezzo mondo. Chi bei pesci vuol pigliare, col mio raggio so levare e chi vuol la buona pesca di dormire non gl’incresca”-. Il finale così non ha senso, ma è come lo ricordo. Probabilmente era invece all’incirca “e chi vuol la buona pesca di levarsi non gl’incresca”. Mi chiedo dove e quando la imparò.
Non è escluso comunque che anche i miei figli l’abbiano imparata. Sbagliata.

Anche i miei fratelli ricordano la filastrocca, ma non il finale. Andy aggiunge che ci svegliava con questa poesia, poi andava alla finestra, apriva le ante di legno, guardava fuori il cielo e c’informava sulle condizioni meteorologiche della giornata.

Mio zio Dino dormiva in cucina su un divano. In cucina c’era anche un tavolo romagnolo, quadrato, di legno massiccio scuro, grande forse più di un metro per lato. Era possibile estenderlo con due allunghi, la linea molto essenziale.
Anche se non lo ricordo personalmente ho sempre saputo che su quel tavolo dormì mio cugino Alberto, lui stesso me l’ha confermato. Alberto, fratello maggiore di Maria di due anni, appena terminate le scuole medie a Cesena venne a Milano nel 1952 e visse anche lui nella casa di via Lamarmora, per un anno e mezzo o due. Maria ricorda che era lei ad accompagnare sempre me e mio fratello a scuola e a venire a prenderci il pomeriggio.

Mio babbo non ha mai interferito nelle scelte che di volta in volta io o mio fratello facevamo. Neppure quando diventammo capelloni e ci mettemmo a suonare. I suoi commenti arrivavano da mia madre ed erano sempre positivi. Lui era già malato. Si parlava di gastrite. Fu operato allo stomaco, ma i medici lasciarono tutto com'era e richiusero. Mia mamma ci parlò del tumore, a lui avevano detto trattarsi d’ulcera o gastrite. Però è difficile a distanza di tanti anni essere sicuri anche di fatti così importanti. Sembra che sia più facile ricordare avvenimenti poco significativi. Forse era gastrite anche per noi, però non andava più a lavorare e già magro era dimagrito ancora di più, tuttavia lo sguardo era sorridente come sempre, i toni pacati.
Io e mio fratello vivemmo quell'anno vorticosamente. Spesso eravamo in giro per l’Italia impegnati in manifestazioni canore o alle prese con appuntamenti discografici. Mio padre ci vide in televisione più di una volta e sono certo che fu contento la sera in cui vincemmo il Festival di Napoli.
Morì nel suo letto quietamente com'era vissuto. Era d’inverno ed era di giorno. Arrigo, un nostro vicino di casa che abitava al piano di sopra, appena lo seppe scese a casa nostra, chiese cotone idrofilo e alcol poi, mentre parlava di lui con voce stentorea quasi a volerci sostenere con la sua energia, spogliò nudo mio babbo e con pietà e decisione lo strofinò e lavò. Infine lo vestì com'era sempre stato vestito, con eleganza. Arrigo, che andava in moto e che quando una volta passò per Sarsina vicino al paese di mia madre ci disse di essere stato a Sarsìna.

Prima che io nascessi mio padre dipingeva.
Alcuni suoi quadri, due o tre, grandi quanto una cartolina li regalò ai fratelli di mia mamma in Romagna. Si tratta di piccoli paesaggi a olio e sono l’unica produzione sua che conosco. A mio zio Romolo regalò anche la riproduzione di una stampa dove una piramide umana che ricorda una torta nuziale illustra la stratificazione per classi sociali, sotto i contadini e gli operai che sorreggono un piano su cui stanno i borghesi che a loro volta sostengono forse i militari, poi il clero, infine i nobili, il re o il capitale, con una scritta che commenta “Tutto grava sulle spalle dei lavoratori”. Ricordo un suo quadretto con la firma piccola rossa in stampatello N.MURATORI 1934.

Ho più volte cercato d’immaginarlo in quel periodo e la distanza mi è sempre sembrata irrecuperabilmente lontana, forse anche perché precede di quattordici anni la mia nascita. Un tempo che non mi appartiene e che colloco in una dimensione irreale.
Mio figlio Andrea un paio d’anni fa mi disse che gli piaceva un mio quadro del 1971, ne fui lusingato e glielo diedi. Poi ho realizzato che il tempo che separa lui dal mio quadro è lo stesso che separa me dai quadri di mio padre.





 
 
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